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Le Mutande

Leggendo per caso (mi trovavo dal dentista) un articolo sulle mutande pubblicato da “Sette” (luglio 2016) mi sono venute spontanee alcune considerazioni a seguito delle curiosità contenute nell’articolo e dalle quali si comprende a quali conseguenze portano certi tabù o, per contro, certi eccessi igienisti o sessuali.
Per esempio, l’ex calciatore Beckham usa le mutande una sola volta e poi le getta, uno scherzetto igienista che gli costa ben 1500 euro al mese (sic!).
Il celeberrimo attore Laurence Olivier mandava all’attrice Vivien Leigh, leggendaria interprete del film “Via col vento” (di cui era follemente innamorato), dei garofani che aveva fatto appassire nei suoi slip.
La regina Elisabetta usa mutande e reggiseni solo di seta e solo realizzati a mano.
La Pompadour, celebre amante di Luigi XV, regalò al re un paio di mutande rosso fuoco, ma il sovrano si rifiutò d’indossarle con la motivazione che “un uomo in brache non sarà mai un eroe”.
La moglie di Napoleone, Giuseppina Beauharnais, aveva ben 500 camicie, che cambiava due volte la giorno (e non è dato sapere se si lavasse altrettante volte), ma solo due paia di mutandoni di seta carnicino, che come indica il nome è un colore simile alla carnagione umana.
La regina Vittoria indossava lunghi mutandoni i quali, data la stazza della donna, avevano una circonferenza di ben 132 centimetri.
A metà del ‘700 le dame importanti sotto le mutande usavano truccarsi le natiche come il viso, con belletto, rossetto e finti nei. Santa Caterina da Siena sosteneva che le mutande portavano le donne alla dannazione eterna.
Il noto scrittore Hemingwy non le indossava proprio, non per i motivi addotti da Caterina ma semplicemente perché gli davano fastidio.
L’attore comico Diego Abatantuono a volte le indossa e a volte no: “Gli slippini mi fanno schifo, mi danno fastidio. I boxer mi fanno volume”, ha dichiarato.
Marilyn Monroe, che dormiva nuda (non sopportando a letto alcun tipo di indumento), non portava mai le mutandine, salvo durante il ciclo mestruale.
Negli anni ’90, anni degli eccessi, erano state inventate negli Usa gli slip gastronomici, nel senso che, realizzati in vari gusti, si potevano mangiare.
Fino al 1993 in Giappone esistevano distributori automatici di mutandine usate dalle studentesse con annessa foto della ragazza che le aveva indossate.
Recentissima è la notizia che, sempre in Giappone, sono state inventate le tecno-braghe, mutande anti peti che trattengono i gas intestinali il tempo necessario ad essere depurati tramite appositi filtri.
Le culotte francesi sono un tipo di mutande sexy, che fasciano il sedere, in voga durante la Belle Epoque e che, soprattutto le ballerine, mostravano durante lo scatenato ballo del can can. In tempi passati, durante il periodo della dominazione longobarda, le mutande erano chiamate “femoralia”.
Fra l’altro, va detto, che anticamente le mutande erano un indumento tipicamente maschile, mentre le donne, solitamente, non portavano le mutande ma una camicia lunga.
Pare che le mutande femminili entrarono comunemente in uso all’inizio dell’Ottocento Le mutande, secondo alcuni storici furono inventate (o reinventate) nel 1500 da Caterina de’ Medici per poter andare a cavallo senza mostrare le parti intime, secondo altri fu Isabella d’Este ad introdurre il prezioso indumento copri “vergogne”.
Le mutande, che in realtà erano mutandoni, caddero in disuso nel XVII secolo per poi tornare in auge nell’’800, sebbene lunghe fino alle caviglie e delle quali era proibito parlare, per poi ridursi a calzoncini, ossia alle culotte di cui sopra.
Sembra, però che l’origine della biancheria intima sia ancora più antica e sia dovuta Egizi, quando le donne nobili incominciarono a fare uso di due tuniche, di cui quella interna è da considerarsi l’antenata della camicia, che poi verrà indossata dalle donne greche e che comparve poi anche nel mondo romano.
Ma secondo il giornalista-scrittore Luciano Spadanuda, uno dei massimi esperti della storia dei costumi sessuali e autore del libro “Storia delle mutande. Dalle ‘briglie da culo’ rinascimentali al culto contemporaneo”, questo indumento sarebbe ancora più antico e risalirebbe addirittura ai popoli primitivi che usavano astucci penici per protezione e che sono da considerarsi gli antenati degli slip o delle mutande, un termine che deriva dal gerundio latino “mutandae” (dal verbo mutare, cambiare), mentre il termine slip deriva dall’inglese “to slip” che vuol dire far scivolare o infilarsi.
Il tanga o perizoma, di origine brasiliana, è soltanto l’estremizzazione di silp ridotti a un triangolino di stoffa davanti e ad un cordino fra le natiche. I boxer, invece, devono il loro nome ai calzoncini indossati dai pugili sul ring. Insomma, chi più ne ha più ne metta, tanto è vero che al Vittoria & Albert Museum di Londra è in corso una mostra dal titolo “Svestiti, breve storia della biancheria”, dove molti capi di quelli citati si possono ammirare fino al 12 marzo del 2017.
Detto questo, come sappiamo, a noi naturisti tutto questo fa sorridere, se non fosse che le mutande, che dovrebbero avere soltanto una funzione igienica, sono diventate una barriera a protezione del pudore che è, come viene sempre ricordato da queste pagine, un sentimento artificiale creato, con diverse sfaccettature, dalla cultura dei popoli, o meglio, delle civiltà che si sono succedute nel corso della storia.
Nel Medioevo, addirittura venne inventata la cintura di castità, un’aberrazione estremizzata delle mutande, che era, oltre che una tortura, un vero e proprio strumento di controllo e repressione della sessualità femminile.
Come scrive nel suo libro Monia D’Ambrosio, “Il corpo nudo”, l’abbigliamento ha il compito di preservare i processi di regolazione termica dell’organismo, proteggendolo dalla dispersione del calore. Ma con il tempo l’abbigliamento è diventato qualcos’altro,:si è trasformato in un vero e proprio costume o, a seconda dei casi, in un ornamento, e lo s’indossa anche quando non è necessario (la biancheria intima ne è il classico esempio).
Il vestiario è passato da bisogno primario a bisogno sociale, riassume la D’Ambrosio, traducendo l’assunto in altre parole dicendo che la funzione del vestiario si è oggi spostata dalla sfera biologica a quella psicologica, e ciò non è cosa irrilevante, trattandosi di una condizione estremamente lontana dalla naturalità.
Di conseguenza il vestiario diventa un costume quando ha il compito di coprire gli organi genitali, si trasforma in ornamento quando, come nel caso specifico della moda, ha il compito di esaltare i caratteri sessuali, soprattutto della donna.
Il naturismo ha fatto piazza pulita di tutto questo: la nudità non copre e non esalta alcun carattere sessuale, come invece fanno quotidianamente i media che propongono la nudità di corpi perfetti e scultorei di modelli inarrivabili, distanti anni luce dai comuni mortali, dice sempre Monia.
Il naturismo, aggiunge, ha invece messo a nudo (in tutti i sensi) quei comuni mortali che non hanno corpi perfetti, tanto che il naturista rappresenta per la società una sorta di deviato sessuale che pecca anche della presunzione di potersi permettere di mostrarsi nudo dal momento che i media propongono al contrario una nudità che non riguarda la massa.
La nudità naturista non è una esposizione “artistica” di un corpo, ma una nudità naturale e, soprattutto, sociale, perché viene fatta in comune e in promiscuità di sesso e di età, il che significa che è una nudità condivisa.
Nudi infatti condividiamo con gli altri tutto quello che riguarda il nostro corpo, la bellezza e l’imperfezione, eventuali handicap, mutilazioni, i segni scavati dal tempo, dalle malattie e dagli infortuni.
Tutto viene condiviso quando ci si mostra nudi, altro che mutande per coprire, per abbellire o per provocare. Nella nudità non ci sono misteri, è tutto lì, esposto agli sguardi degli altri, esposto alla luce del sole.

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